(Giorgio De Chirico, Melanconia, 1912)
65.
cornucopia del pianto la nuca
bagnata da cave di lacrime
sgomenta aurora non esserle
che caso di nebbia l’ancora.
sul muro del geco il comando
del coma di sapersi
pezzullo di sabbia, bitume.
annessa mansione capire
il muricciolo del logico incanto
il poveretto nell’io che si sfiata
tata di sé senza insegnamento.
66.
con me morirà l’attimo e il piglio
dell’era canterina quando bambina
la penna a biro somigliava vaga
alla gara di una cometa in giro
cheta. era pur sempre un apice
di mente in gloria di binario
nonostante il binario. la rima
equorea col mare più vicino
nonostante il reo apostrofo del senso
già prossimo ad un fiotto di sangue,
la guerra sulle voghe giovanili
quando dappresso non sembrava
il vano. peso di vento si somigliò
il rèmige.
67.
cornucopia di stenti il mare d’arpa
quando le brume della notte pessime
sismano malori cresimano vendette
dal malinconico anfratto del pugno.
in loco non potrò che darmi morta
dal pagliaccio che tenta la fune
del gemello funambolo più bravo.
il vuoto della norma è star legati
dentro la buca della storia storta
apolide di sé sotto vermiglio
imbroglio di comunque resistenza.
sono la giacca nuda in calca di polvere
non mi chiamo per nome ma per difetto
infetto verso un cielo mancia di ruggine.
68.
memoria d’oltreoceano questo sacrario
voluto dalle cenere che vince
con la polvere il velame del silenzio.
appena ciuffo d’erba questo malessere
quale stendardo issato di fantasmi
in pieno cielo logica di dado.
i giochi poveretti delle rondini
hanno premure di contagio allegro
vive di cibo insieme le stoviglie.
per le conserve ci vorrà la luna
a preservare il varo del corpo d’angelo
dentro la teca di dormire docile.
69.
dentro la giara il cuore e la vendetta
d’una qualsiasi rada di perpetuo
avanzo. al male del palo in palio
resta la colica di sopportare il verdetto
l’io concavo delle serrande serrate.
perfino ride il cipresso la malasorte
temprata dalla rendita del fango
così pasciuta da sembrare brama.
appello sul comò il cucciolo dell’ombra
può la cortesia di prendersi in appalto
l’ernia del fiele e la cometa mozzata.
70.
senza disgelo preso da beghe
questo disfatto stato di responso
mattinale auspicio senza la luce
a chetare le cecità del nato.
tanto l’incanto della favolosa
cosa la sazia aureola del pane
quando qualcuno indovinava i numeri
nelle vendemmie le migliorie dell’estro
magistrale parente con il sogno.
a lungo si racchiuse lo scrigno d’oro
ma pomice di veleno l’improvviso
in gola al fortilizio schiantò la nuca.
71.
mostrami quale sarà il risultato
dell’altalena in tutta questa
rimembranza di pianto,
quale alone affosserà il sole
per un novellino imbarazzo
di coma. quale sospetto mortificherà
l’orizzonte che declina le bestemmie
del netturbino. quale tepore inarcherà
la pioggia acidula sullo sfinire della fuga,
quale lente di porpora avrà la pece
nel vallone della fossa comune.
oppure avverami un cristallo potente
stallo e trastullo del ben più che felice
aureolato torpore del sogno bello
sotto le bretelle dello zonzo d’ascia.
72.
a tutto scapito del pane cimiteriale
dài la cuccagna al caso di lasciarti
azzannare dalla curva di chissà
quale paese in serbo di gran gioia.
eppure la postina non ha ruota libera
se già l’intoppo di una borsa a buchi
conserva solo ceneri di sterpi
catapulte le facce di suicidi.
neri pirati e pingui frasi fatte
stanno a ricordarti che varchi chiodi
con le lenzuola in amidi di calchi.
73.
dove andrò a fingermi narciso
tra le certezze del pendolo che vince
e le giunoniche schiume dell’oceano?
tu dappresso non mi conservi amiche
la stralunata pressa di vulcano
né le taniche aride del seme.
balìa alla calura sarò l’avanzo
per le liriche nude delle chele
che imbrattano d’affanno e fanno
male le rondini combriccole e le corse
naturali per vivi di vegliarsi.
il mantice d’atleta non darà soccorso
né tanto meno un apice di birra.
74.
il percorso delle rondini è salutare
al lutto della faida del bosco
quando le scorie delle pésche
prescrivono amuleti per sconfiggere
le gerle sigillate di scherani.
le rapide vermiglie delle luci
seducono i cipressi che demordono
il dono dell’ombra per la branda
in mano alla mansione del creato.
in meno di una lucciola la fiducia
dello sguardo divinato verso il cielo
lustro di motti alla pietà del vero.
75.
l’aurora dell’inganno è finalmente tramontata
e la guerriglia del fiato nelle stoppie
volge al termine respirante diorama.
tutti gl’impegni delle fole sono stati assolti
dal soldato tutto di panna disertore.
tutta felice la corsa del latore
porterà la gerla con l’unguento
per la nuca in cattedra di dado
lato al vincente lato dato fato.
76.
dallo scoglio è stato curato l’antro
velenoso di scompiglio, tu adesso
ne entri ne esci con agio di pargolo
ma solo ieri il gorgo era di palude
e senza gomiti il buono di appoggiarsi
alle manciate del ludo di trovare
finalmente il varo della foce.
in un canestro di baratri e strofinacci
ho visto la fine altera della luce
la gimcana del lutto per combattimento
l’abbattimento delle filigrane delle spose.
77.
ho bevuto dalla tua voce
il rotolo del sale d’imparare
le leccornie acidule del nesso
per imparare il dubbio sulle comete
che sicumere crebbero i natali
delle madri la fiducia ripetente
mossa dal guado di non poter
di meno. sotto il fraudolento dado
del tratto queste caviglie da corsa
la cosa nel frattempo resa marcia.
canto dei seni il latte ne scorga
nonostante il semaforo fasullo
sotto la melassa delle nomee del fato.
78.
in mano ad una faccenda di palude
gestione rigida di fossi
questa matrigna stazza con il seno
nero.
spine d’angolo starsene
seggiole di fucilazione
per le cintole i sassi
intrisi d’epiche e coltelli.
alla lanterna del dolo le pendule
letargie del falso per resistere
a terra con la razione vuota.
79.
la dignità di una faccia
è stare in faccia al vento
starci di ferro con il salino
addosso. e piangerne lesta
la compagine di giro sotto
il fronte d’occaso. l’ira
mansueta del tramonto
intrecciata con la selva
delle paludi. il ludo nudo
delle fiaccole in coma
qualora il costo della lente
sia il fuoco consorte col tema
della stanza abbandonata. interno
di aprile premere la gemma per
scoppiarne il fiore.
80.
lasciami questo ciglio ch’io
possa piangerne l’egemonia
del fato ben più forte di ogni
lato. lasciami la sciarpa che sappia
imbalsamare il mare, il mare aperto
dove scomparve la materna barchetta
con le siepi vermiglie nei bordi. e invece
è nato un bastimento in tutto e per tutto
pieno di risentimento verso il crocicchio
delle ondine. tu non bestemmiare
questo dispetto che tallona le bonomie
e fa repente il mito di baciarci.
un furto in meno e le lacrime sarebbero
piane per non perdere l’agguato dell’abbraccio.
81.
prendila questa incerta danza
questa parvenza tutta
di meringa per la merenda d’infante
in un fondo amore che non sa tradirsi
tra il sì del darsi e l’inimicizia darsena
della luna conquistata. qui è stata
tradotta la cometa dal drappo nero,
qui è stata mangiucchiata la rima che
ci rese amanti e tanti giunchi traggono
pane per la bellezza dell’inchino chimerico
di chissà cosa chiedere! e nel dominio
della libertà ti vedo incline verso le sostanze
scolaresche di baci tutti da regalo.
82.
un viso da acrobata e non le bastò
il mare. una stagione all’inferno
e non le bastò la morte. una coloreria
di baci e non le bastarono gli abbracci.
in tutto questo andirivieni di rotte
non le bastò la riva di veleno
per farsi avvelenata o lena davvero nata.
fu un crocicchio di alluvioni, per intenderci,
tra un pertugio e una vite per tentare
il giogo della vena che resista
nonostante il coma del verdetto.
dietro sulla schiena ebbe occhi
da apolide sabbiosa senza le redini
di niente e di nessuno.
83.
ho un collo che falcidia la mia promessa
di vivere lo zelo della rondine
nonostante la stanza del capestro
il paesaggio di cencio tutto intorno.
così non ce la faccio con le dimensioni
di un’inedia diavola con il sisma devoto
in far di mare il pozzo. oro si dica di questa
suggestione d’arsione sulle marette
della soglia verso il sodalizio dello sposo
al sogno. e non basta l’elicottero al soccorso
per rendere meno scellerato il bisogno
all’opera dell’essere, se per converso
semplicemente un alito di vento
potrebbe il rovescio delle tabelle.
84.
profanato dal sale quest’erbario
bacato dalla ronda, reso amaro
dalla fionda. così la fola del caso
di gemma renda la furia del vento
una mamma. una venuta a terra
per capire perché si stemperi
così tanto il caso dell’osso al sangue
qualora la foggia dell’improperio
pianga una voce che non fu felice
all’abaco della terra. chi invece
rinunciò per correre a riva finalmente
con le terre del bosco sotto i piedi.
85.
mare del poco,
sbarco di pena
sulla sabbia di sagome.
nelle afasie le guerre di campare
nei locali di faccende senza
amore, le metamorfosi ginniche
del patriota a ruota libera scalmanato
nella resistenza. stento del bacio
in via di estinto stato. mare del poco
la sponda senza pane, ricettacolo
di coma.
86.
non farmi occaso dal cantone
dei giorni, spalancami lo scudo
del dominio dei morti, così da
una città le targhe sulle case
di poeti, mano nella mano
sotto il guado di guardarsi per
dirsi se siamo, se le giornate
spintonano le scale, il nome
di uno sciroppo lenente il
rospo della mente. il plebiscito
del pianto tutto uscito da bocche
deformi. a mo’ di bosco scovo
il tuo minatore che sempre allo
stesso punto resta. sta tale e quale
l’ernia della vista di muraglia.
87.
con un gerundio di autunno
il ladro delle ruote fa palude
il lutto, manciate di sale sotto
il letto per sconfiggere le giacche
di detenuti tenuti in vita da
ciotole di ciottoli. tutto deve
convergere per il caos del soldo
in bocca senza itinerario di aldilà.
ha foggia di chele l’indovino
che s’inzacchera il naso con la peste
del cappio. non ha tempo di dirsi
dizionario questo chetarsi terra.
simbolo più acerbo della resistenza
il pirata sposato con la rotta, l’arrivo
o la partenza senza importanza.
88.
mi dà sconquasso l’argine del volto
il passato e il viso sotto un’incudine
di discola memoria di reo anfratto
atto a non uscir più di casa dal covo
delle ossa. l’incuria spinosa senza
giammai un’oasi per il sì di poveri
avventori. qui il torto è di pietra
e la matrice molle una madre
infante. il teschio uguale per tutti
sotto sembianze di turbe per la gioia
di gioie per il tremore. in mano alla
rotta di sconfiggerci c’è la cicala
protestante, la stanza di un gerundio
senza verbo. il servo botanico
per sopravvivere al tradimento
del sangue all’afasia del sia.
89.
se il tempo è sotto scorta e la valuta vuota
fuori corso il sorso di vendemmia,
dammi gli spilli di una pianta grassa
salata all’acciaio dell’aria e vieta origine
il giro della vite. piango il ciliegio
che di sé gironzola la notte
rossa di fuoco della guerra contro,
dammi un limone che non si faccia
spremere dal pugno del violento
nosocomio. che io impari come
dormire sotto le bombe delle brevi
vene, e dimmi un genio di vicinanza
che con una leccata di cielo mi faccia
alzare la zattera di zero!
90.
dammi un lucido lutto
che recinti i miracoli
inavveduti,
le vedute di paglia
delle rondini,
metti l’oro all’evaso
che finalmente possa
colpire la valvola
che vocifera cipressi
cattivi. del pendulo
abisso sconquassa
le paludi confitte
confidenti il risucchio
dell’io. il catrame del
traino di rotta
me convulsa animi!
91.
al gergo per sopravvivere
il muschio del chiodo fisso
quando la lingua è un guado
di cipressi silenziosi. la lezione
è sul muso eppure non capisci
le principali rimonte del sudario
quando davvero la lotta è tatto
di comatoso avvento. le marine
delle darsene se ne vanno in cloache
per perdita di senso. addio è la fuga
di una panchina tutta decrepita
sulle pepite di amori vulcanici
scapitati in un buco di serratura.
92.
l’indice della fionda
nessuna dimora seminale
tra il click del lancio
e il sussulto del colpo.
in un soprassalto di arboreto
le gemme d’indici al porto
al posto di sterpaglie con le mine di guerra.
93.
fra mura di te voglio l’ergastolo,
la fronte vizza con le caviglie in storta,
chiodo del sale la stesura
intarsio dell’almanacco in strazio:
evidenza che contamina
globo chiodato il dado della nascita
scisma, salato fato di paralisi.
94.
ha un ciglio di strada
una scaletta tutta letta
scampagnata di zaino di sassi
martirio d’indici.
appena di sopruso il tiro con l’arco
volente addietro non conoscere niente.
95.
ufficio di riscatto starti a guardare
dal cuore delle onde di risacca.
96.
con il fiatone di chi muore di risacca
97.
sulle gole
ai piedi degli angeli
la gioia della fronte
la mansuetudine infante
dell’imbroglio io qui di
fame. particella di ieri
il tuo ventaglio scaccia
lapidi. e invece un’ernia
scoppia dall’iride del viso
dal sogno che non fa dormire.
era una donna di ieri quella
che fu mia madre avviso
di fiori perenni. e invece
il cesto si spaglia rende l’ombra
per un assassinio stolto quanto
l’eden bugiardo o la vendetta sismica.
98.
la malia del latte di rondine
quando spuntano fole
nelle ginestre tenaci
a bordo strada a mo’ di aquiloni.
la mensa sotto calice s’impone
come abbandono, nome del mero
scatto di catene. tutta atroce
l’eresia del verbo quando il ribelle
a sé chiami il sillabario per trovare
un’agonia degna di risata.
99.
né un urlo di pianto né un sodalizio
nel gerundio di foto che sopravvive
alla lorda cometa velenosa.
al convento del sale vidi il tempo
pro capite sguaiato quanto un alamaro
vuoto sul dirupo di cenere.
nel celeste che rubo per restare
la scansia del palmo a mo’ di sia
sia così un vanto per la gioia
sutura sotto zucchero la piaga.
100.
in un cielo di spose ho visto un abaco
con le minacce in coda a mille baci.
la cianfrusaglia dell’ammanco
non trova pace neppure
nella questua delle elemosine
nelle candele accese
dopo moneta d’offerta.
101.
allora l’erba scalza
vialoni di cultura
e torna logico imbrunire
di pianto questo scatafascio
capiente come una lumaca
senza alcuna scia. indarno
la fiaccola corre sulle sabbioline
d’ascia. non sei dei nostri
nella nuca spappolata dal fosso
del soldato buio, io mi arrendo
dove posso al sole pessimo
della stamberga valutata in gara
di vita dagli amanti. non ho che
mensole del sorso, e per dovere
il mignolo del rantolo fonico
cratere d’imboscata ressa di palude.
102.
(Andrea Chiesi)
sull’acedia greca:
« L’Accidia una freddura,
ce reca senza mesura,
posta ‘n estrema paura,
co la mente alienata »
Iacopone da Todi
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