Ho letto un piccolo libro di poesie che mi ha stupito, si intitola Accompagnarti, di Maria Stella, anglista insegnante alla Sapienza, esperta di otto-novecento inglese e traduttrice di Thomas Hardy e Ted Hughes (da ricordare un volume su Cesare Pavese traduttore, del ’77), scomparsa prematuramente nel 2004 (era nata all’Aquila nel 1950). Il libro è pubblicato da Fuorilinea, nella bella collana di poesia rosso sospeso (che però ha copertina gialla)dove uscì nel 2012 anche il notevole esordio di Elena Buia (Ti stringo la mano mentre dormi) e più recentemente, mi piace segnalarlo, un volume di haiku del triestino Grisancich (99 Haiku metropolitani). Maria Stella non aveva mai pubblicato poesie, i familiari trovarono tra le sue carte dopo la sua morte questa silloge di 27 poesie e decisero di pubblicarla. Il volume uscì nel 2004 per i tipi del Girasole, e riesce adesso con Fuorilinea corredato di una prefazione di Simonetta de Filippis e di una postfazione di Piero Boitani.
Mi ha colpito di queste poesie il nitore e la semplicità, la chiarezza e sicurezza delle immagini, che riguardano più che altro l’infanzia, dell’autrice e della figlia. E l’estrema pulizia e precisione dell’osservazione, molto concreta e plastica. Molto vivace, viva.
Elastico
Nell’infanzia per lo più sostantivo:
familiare e proibito compagno di giochi.
Serviva a legare le trecce di giorno,
la sera veniva strappato con furia
intrecciato ai capelli.
In una scatola a fiori,
di latta, nascosta
dentro il suo archivio
mio padre ne conservava geloso
di tutti i colori: molli cerchi
turchini e vermigli,
allacciati in lenti grovigli,
refurtiva preziosa
dopo segrete incursioni.
Sicché stupivo a casa della compagna
trovandone appesi
con incredibile scialo
larghi bracciali
alle maniglie alle porte.
Nell’ora delle lezioni
servivano a fare le fionde
per le palline di carta e saliva,
a trarne forme strane come si fa con lo spago,
a pizzicarne varie vibrazioni,
ben poco a legare stringere.
Cosa che invece pian piano
con grande educazione
l’elastico
cominciò a fare
attorno al mio corpo adolescente:
più o meno alto, piano o tubolare
contribuiva discreto a sostenere
giarrettiere e mutande,
facendosi sempre più lieve e trasparente
sulle spalline del reggiseno.
Elastici che altre mani
ancora poco sapienti
appresero presto a slacciare.
Quand’ebbi diciott’anni
con rapida improvvisa mutazione
divenne aggettivo, maschile singolare,
da rinfacciare, al negativo,
innanzitutto al compagno: non sei per niente
elastico.
Concetto che negli stessi anni si allungò, si estese
e scartando con radicale coerenza
persone,
stili di vita,
forme di conoscenza,
mirò teso
a colpire il sistema:
erano gli anni duri della teoria
anni che rimbalzavano poco
e prescrivevano fino al millimetro
l’ampiezza delle vibrazioni consentite
(agli altri naturalmente, dato che noi ponevamo il
problema)
sicché infine l’idea stessa di elastico
risultando inservibile
schioccò e si ruppe,
consegnando a noi stessi
le nostre armi spezzate.
Seguirono gli anni della resa:
accettata impotenza
in cui saggiare istante per istante
resistenza e tenuta
dei propri solitari rimbalzi,
senza più tante
presunzioni teoriche,
lievi tuttavia se quel molleggio
s’accordava per caso
alle parallele
indipendenti
oscillazioni di un altro.
Finché infine un giorno,
del tutto fuori stagione
rotolò ai nostri piedi
il frutto della maturità:
fulminea visione
in cui coincisero
il nome e la qualità,
l’uno e l’universale,
si fusero il bello e il vero:
stavolta l’elastico
– uno solo per entrambi –
era intero
reale
come noi,
in tensione
reciproca
e globale.
Rosa pallido
era
un sottile filo rotondo
stretto ad occhiello a un capo, all’altro
una di quelle palline di pezza
cucite insieme a spicchi,
– flosce arance multicolori,
piene di fini grani di ghiaia –
che da bambini piaceva
lanciare con soffici tonfi sui corpi,
poi riafferrare al volo:
metafora lucida del possesso del mondo.
Così stupiti increduli
abbiamo ripreso a giocare: e ora
ogni volta che infili al dito
quel cappio e tiri verso di te,
pronta dall’altro capo accorro
nel cavo della tua mano,
o viceversa resistendo
senza mollare
attendo sia tu a rispondere
alla mia trazione,
sicché comunque attorno
a quella sfera
– come all’arcana prima mela proibita –
convergono
sorprese,
elastiche,
le nostre dita.
*
Nessun uomo…
Nessun uomo
è un’isola
tutte le isole
sono donne
sole
vele salate
stese al sole
talora aggruppate
sventolano
veli salati
saluti
e lacrime.
*
Prime note per un diario napoletano
A distanza di quasi un anno dal primo impatto con Napoli riemergono oggi, sollecitate da un ultimo episodio, alcune immagini della città.
I ragazzini seduti tranquillamente in piena ora di punta, sui gradini di accesso all’autobus – non importa di quale porta, dato che si sale e si scende indifferentemente da tutte. Si limitano a scavalcarli, infilandosi all’interno con le acrobazie e le contorsioni più folli. Non dicono nulla, non rimproverano, non si lanciano neanche occhiate disapprovanti di intesa.
Nell’animo mio romano un ingorgo di vaffanculo, desideri da gendarme di Pinocchio di afferrarli per un orecchio e sbatterli dentro, in piedi come tutti gli altri o, meglio ancora, fuori dall’autobus. Feroci rigurgiti da grillo parlante: intontirli di prediche, spiegazioni, lezioni di civiltà. Mi guardo intorno di nuovo: sono solo io a produrre muti sguardi e parole di critica. Gli altri non sentono non vedono non parlano. Sono io la diversa, l’estranea. Ma che cos’è la loro, la tolleranza estrema di una civiltà ancora umana di cui noi abbiamo perso le tracce, o il menefreghismo di una degradazione completa e totale di tutti i legami, l’indifferenza di chi ha rinunciato ad ogni progetto di correzione, di miglioramento?
Riemerge subito, a rispondere a questa domanda, d’impulso un’altra immagine. Hanno ragione loro. La loro è tolleranza, rispetto. Scaturchio: ore 8.30 di mattina. Bar – uno dei più ricchi e belli e buoni di Napoli – pieno di gente, entra, brutta sporca e cattiva, una bambina zingara. Si fa largo fino alla cassa, alla distinta proprietaria, e impasta senza né grazia né arroganza un “Coca Cola” a stento decifrabile, allungando la mano verso la cassa non nel gesto di chi porge moneta, ma di chi la attende in elemosina. In quell’attimo di sospensione, io, l’estranea, già immagino il gesto che seguirà: la signora si impettisce, indurita cala come una bacchettata le dita rigide e lunghe sulla mano della bambina, mentre parte perentorio l’ordine che partirebbe a Roma A regazzi’, vede d’annattene. E invece no, la signora rimane serena, morbida, signorile, fa cenno attraverso la bolgia delle teste al barista dietro al banco: “dai la coca cola alla bambina”, come fosse sua figlia o nipote, come se avesse regolarmente pagato.
Evidentemente è lì d’abitudine, non è la prima volta che viene a chiedere da bere, così come, sempre lì, stessa ora, un’altra mattina, bar quasi vuoto, il barista rimprovera un mucchietto di stracci, radi capelli, unghie lunghe e lerce, che è una inimmaginabile vecchina, di volere, gratis, il quarto caffè della mattina: ti fanno male!
E mentre io già meravigliata considero rispettosamente il tono di rispetto e di affetto del giovanotto, sento dietro di me una voce che fa: “daglielo, va glielo pago io”. “Signora, lo paga il professore!”; mentre la signora serena e signorile batte alla cassa il professore mangia il cornetto con naturale serena concentrazione, la vecchina ghermisce il suo quarto caffè, io mi interrogo, li interrogo. Siamo disavvezzi a questi gesti antichi, qui a Roma; moderni, abbiamo perso il senso di un destino comune che lega a Napoli il ricco al povero l’adulto al bambino, il dentro al fuori.
Cos’è casa, ad esempio, se la mattina in vestaglia e ciabatte sono giù nel vicolo a chiacchierare, i miei panni che toccano i tuoi da una finestra all’altra, sulla mia testa? Cos’è casa se io vivo per pulire e lustrare tutto aldilà del gradino, ma appena di fuori con lo stesso zelo trovo normale vivere per imbrattare?
*
Accompagnarti
Bambina mia
gambette secche calze bianche
piedi lunghi nelle scarpette
azzurre
e sulle spalle strette
la cartella pesante che ti piega in avanti
ramoscello sottile
che accosti ridente la testa
alla testa della compagna
e in un soffio
scompari alla vista
dentro l’atrio di scuola
figlia mia misteriosa
piccolo ago
penetrato
e uscito
dalla mia carne
che non si spezzi
il filo che tiri via veloce dietro di te
che all’altro capo
io resti ancora
nodo fermo
nella gugliata della tua vita
che almeno ti accompagni
finché
libera infine la cruna
sappia
da sola
pungere il mondo.
*
Maria Stella (L’Aquila 1950 – Roma 2004) ha insegnato letteratura inglese nell’Istituto universitario Orientale di Napoli e, da professore ordinario, nella facoltà di Scienze Umanistiche di Roma “La Sapienza”. Dei suoi interessi di studio restano le monografie su Cesare Pavese traduttore (Bulzoni ’77); L’inno e l’enigma. Saggio su Ted Hughes (Janna ’88) di cui ha tradotto due raccolte poetiche; Momenti di visione (Franco Angeli ’92), antologia poetica di Thomas Hardy con ampio saggio introduttivo. Collaboratrice di riviste scientifiche con saggi su autori dell’Otto e del Novecento (tra cui M. Lamb, W. Blake, M. Mac Carthy, W. Wordsworth, E. e Oh,- Bronte, D. H. Lawrence, T. Gunn, R. S. Thomas, E. Bowen, J. Conrad). Postuma la raccolta di poesie Accompagnarti (Il Girasole, 2004; Fuorilinea, 2014).
commovente,da inchinarsi per le emozioni che ha prodotto
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