Il Piccolo manuale di spiritualità è una specie di test: serve a capire quanto siamo stati fagocitati dalla superficialità imperante o se abbiamo acquisito la capacità – o meglio, ricevuto il dono – di fermarci, accedere a una zona di silenzio, aprire il cuore a un messaggio più denso di quello dei mass media, il messaggio dell’amore vero.
Bisogna sfondare i sensi, dicono i Padri. Ciò è possibile solo se accediamo al nostro vero sentire: il desiderio più intenso – spesso deviato – viene rivolto, finalmente, nella giusta direzione.
Tutti i lettori più sensibili ci hanno fatto la stessa confidenza: al primo impatto ci è sembrato difficile; poi, leggendo e rileggendo, è stato come se si aprisse la mente, anzi, il cuore. Si entra, così, nel ritmo giusto di lettura: un paragrafo alla volta, negli interstizi della propria giornata, per impregnarla dello Spirito.
Non abbiamo scelto una linea dogmatica, quella delle definizioni: il criterio è fenomenologico, la declinazione della vita spirituale nella ferialità del quotidiano, la trasformazione di pensieri, parole e azioni al contatto con la profondità dell’amore. Ne nasce una descrizione dei criteri esistenziali di chi aderisce alla dimensione dello spirito, secondo il noto elenco di san Paolo nella Lettera ai Galati (5,22): “Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé”. Oggi ci sono varie proposte, nel campo della spiritualità, ma poche entrano nel nucleo incandescente dei principi vitali, che ciascuno di noi può fare suoi se decide di aprirsi alla luce necessaria per fare verità nel cuore, alla forza e alla grazia che consentono di oltrepassare le resistenze e la paura, affinché tale verità, chiaramente svelata, sia pienamente accolta e condivisa.
Ne risulta un vademecum alla portata di tutti, nel momento in cui si attinge all’immagine di Dio che siamo. Il libretto è per chi non ha fretta, perché sa che il successo esistenziale richiede di donare qualcosa che non vogliamo più perdere, il tempo: dimenticandolo, finiamo col perdere la vita.
Il Piccolo manuale, dunque, è un progetto di esercizi spirituali sempre attuale, fatto per chi coltiva in sé un desiderio di conversione concreta. Il primo annuncio di Gesù è stato questo: cambiate, cioè, amate. Speriamo di aver dato un nostro, infinitesimale contributo.
IVANO FERRARI – LA MORTA MOGLIE – EINAUDI- TORINO 2013 – euro 10- pp.96
Versi impregnati dell’odore della morte, del suo degradante e immobile gelo, del suo imperturbabile squallore, questi di Ivano Ferrari pubblicati nella prestigiosa collezione bianca di Einaudi. Il volume si divide in due parti, scritte a distanza di trent’anni una dall’altra. La prima sezione (“Le bestie imperfette”) ritorna sui temi già proposti al lettore nella indimenticabile raccolta “Macello” del 2004: il sacrificio cruento delle bestie nei macelli pubblici, la loro agonia, la loro ingiustificabile, orrenda e gratuita sofferenza, che tutti siamo pronti a dimenticare davanti a un sandwich al prosciutto. Eccoli qui, gli animali raccontati in versi da Ferrari: puledri uccisi appena partoriti, vermi che escono dalla carne guasta, vitelli e asini malati da scartare, veterinari impietosi, aguzzini sadici, macellai che assaggiano il sangue delle vacche o giocano con le tenie dei cavalli: “boia, squartatori/ chi sgozza e chi raccoglie il sangue,/ trippai, scuoiatori, facchini/ quelli che macellano a domicilio/ pellai, insaccatori e necrofori,/ la classe operaia.” Cosa dire ghignando alle bestie da immolare? “ricordargli che il padre/ la madre/ i genitori di entrambi,/ i figli/ i fratelli/ la specie sua,/ è nata/ cresciuta e morta/ per renderci più alti”. Tenere presente però che forse “la specie ospite” siamo noi, che magari ci aspetta una sorta di contrappasso, o chissà, una vendetta a cui non siamo preparati: “Se sfondassi il muro della carne/ e attaccato al gancio sorridessi/ cosa direbbe chi è pagato per squartare/ il timbratore di lingue/ quale etichetta mi metterebbero/ quanti organi scarterebbero/ e il veterinario penserebbe panta rei?” Perché in un macello “l’eterno dura/ al massimo un giorno”, e “Più grande/ del dolore è l’universo”: quindi possiamo voltarci dall’altra parte, e non pensare. Ma cosa succede quando a soffrire, a agonizzare e morire è una persona cara? Nel caso del poeta, sua moglie (“La morta moglie”): allora la malattia, il tumore, “i capelli radi come un angelo”, le ospedalizzazioni, “la sacca dell’urina” e la casa in disordine (cibi confezionati, frigo sfornito) raccontano una disperazione lucida e senza appello. Nessuna retorica in questi versi di Ferrari (“sono giorni semplici di agonia”, “nella casa si raduna attesa”, “sei destinata alla fluttuazione”), che rifiuta rabbiosamente sia qualsiasi consolazione fideistica, sia di rassegnarsi con umiltà. C’è rabbia, ma c’è anche consapevolezza che la morte è la conclusione naturale destinata a tutti: “Prima o poi/ i luoghi scompariranno”, “non c’è luogo che rimanga intero/ né secolo a cui resti tempo/ muore sta morendo la materia”. E finire è una cosa crudele e semplice, a cui tuttavia non sappiamo arrenderci: “Entrare nel tuo sguardo obliquo/ senza sentire né anima né fosforo divino/ ma solo la punta fredda delle ossa e la pelle/ arresa al tuo profilo”. La scrittura di Ferrari si offre nella sua franca durezza, scabra e priva di concessioni a giochi linguistici; “spesse volte la poesia accumula polvere”, è ridondante e inutile, elegante e sciocca. Non è il caso di questi versi.
“Poesia” n. 287 – novembre 2013
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straordinario, grazie
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