Prima di ogni partita e di ogni cielo
Bisognerà iniziare dall’epigrafe agostiniana per comprendere questo nuovo – essenziale, lucido, pietoso – libro di Pasquale Di Palmo, uno degli autori più parchi e intensi della sua generazione: «Quale uomo farà intendere ciò ad un altro uomo? Quale angelo a un angelo? Quale angelo a un uomo?». Ci troviamo nel capitolo conclusivo delle Confessioni: dopo aver ricapitolato il contenuto del racconto biblico della Creazione e aver reso grazie a Dio, Agostino pone l’accento sul mistero della misericordia divina (Tu vero, Deus une bone, numquam cessasti bene facere) e sulla contemplazione della sua perfezione: Tu autem bonum nullo indigens bono semper quietus es, quoniam tua quies tu ipse es («Tu invece, bene che non necessita di alcun bene, sei sempre in riposo, poiché tu stesso sei il tuo riposo»). Nella quies divina è simboleggiato – e anticipato – il riposo eterno che Dio ha promesso ai suoi figli: oggetto di una speranza alla quale nessuno può accedere se non per fede, e che neppure gli angeli (siamo alla frase posta in epigrafe) sanno intendere: Et hoc intellegere quis hominum dabit homini? Quis angelus angelo? Quis angelus homini? Nella frase conclusiva, Agostino può così rivolgersi a Dio, perché disserri, quando sarà tempo, le porte del regno dei cieli: A Te petatur, in Te quaeratur, ad Te pulsetur: sic, sic accipietur, sic invenietur, sic aperietur («A Te chiediamo, in Te ricerchiamo, a Te bussiamo: così, così otterremo, così troveremo, così ci sarà aperto»).
Fin dal titolo, Trittico del distacco ci immette dunque nella materia più oscura e paurosa della vita di un uomo: il tempo in cui dobbiamo lasciare le cose del mondo, discendere «in un gorgo / che sempre più ti attira / verso il fondo / verso il fondo / verso il fondo», come leggiamo nell’undicesima stazione della seconda sezione (Centro Alzheimer), interamente dedicata al padre del poeta. La triplice iterazione del verso, qui, intensifica il tema del distacco, acuendo – con i toni spogli e severi tipici della poesia di Di Palmo – l’ineluttabilità dell’evento. Eppure, a ben guardare, i due sostantivi di questi versi («gorgo»; «fondo») – il primo dei quali ricorre in un verso di Sbarbaro («mi basta sul gorgo sentire che esisto»), già posto da Pasquale Di Palmo in esergo a Horror Lucis – non esprimono alcuna speranza di futura quies. Né in tutto il libro potremmo trovare un solo termine che alluda alla salvezza: morire non è altro che un rientrare in seno al corpo della natura da cui tutto venne, e al quale tutto ciclicamente si volge, «laddove non esistono che nuvole / ignare di ogni nostra parentela» (Centro Alzheimer, X, 18-19). E ancora nella prima parte del Trittico, Mirco, il cugino che non ha saputo (forse voluto) «guidare / la vita», non può che discendere «lungo il sentiero arioso che conduce / dove – ma non per noi – / farnetica la luce»: e già quell’aggettivo («arioso») pare molto, a chi, scrivendo, è riuscito per forza di augurio a trasformare il «cane nero» dei morti in un animale mansueto, privo della laida terribilità del Cerbero dantesco.
All’epigrafe agostiniana viene dunque accordato il solo compito di serbare viva, nell’ignoranza delle cose che stanno di là dalla vita, l’ansia di un mistero che si traduce, umanisticamente, in pietas, in un esercizio di misericordia tutta umana. Ma la potenza conoscitiva, il riverbero mistico delle parole di Agostino gettano sui versi che seguono una luce drammatica, corrusca, che li intensifica, posto anche che quell’epigrafe fosse da leggere in senso angoscioso, antifrastico.
Nel primo dei tre «addii» – Trittico degli addii era il titolo originario dell’opera –compaiono luoghi e paesaggi (tra terraferma e laguna veneta) che già abbiamo incontrato nei libri precedenti di Di Palmo, e che costituiscono la sua geografia umana e memoriale. L’andamento è insieme lucido e allucinato, ma la lingua più povera, volutamente semplificata rispetto alle raccolte precedenti, forse sulla scorta dell’ultima sezione – un linguaggio da referto – di Marine e altri sortilegi (Gli annegati). Le figure che ci vengono incontro, a cominciare dallo stesso Mirco, protagonista eponimo della sezione, vivono in uno stato di marginalità che acuisce il senso di spaesamento dei luoghi, denunciando una comune condizione di smarrimento, se non di infelicità. Nondimeno, sono proprio loro, gli emarginati della vita e della storia, «che dovrebbero / avere di noi compassione» (Down), come leggiamo nella quarta poesia della sezione. Gli elementi naturalistici – così significativi nella poesia di Di Palmo – risultano interiorizzati, e determinano la tonalità dominante dei versi, suggerendo un senso di incertezza esistenziale. «C’è il sole, piove»: così, nella nudità del dettaglio, si conclude il primo dei tre addii.
Proprio una di queste annotazioni atmosferiche («un ricciolo di sole») congiunge la prima alla seconda sezione, quella dedicata al padre: il ricciolo di sole che spiove sulla testa «poco più grande di un pugno» di Danilo, è lo stesso che «affossa» il pallore dell’infermiera preposta alle cure del padre nel primo dei quindici componimenti (incorniciati da due commoventi poesie in dialetto) della suite, forse con una memoria di quel sole che «si corona di spine» che già leggevamo in Horror Lucis (Qui, sotto i falansteri di Dolomieu), o delle «vaghe stimmate di sole» di un’altra poesia di Marine e altri sortilegi (Perdersi tra le officine come in un incubo). E «in un sonno di spine» già vorticavano le foglie nell’ultima strofa di Marco. Come giustamente annotava, quasi vent’anni fa, Stefano Strazzabosco nell’introduzione a Quaderno del vento, le parole di questo poeta che non a caso si è formato sulle scritture ossessive e brutali, spesso patologiche, di Artaud e di Michaux (ma anche sulle pagine, espressionistiche e visionarie, di uno Sbarbaro o di un Rebora), «vengono percepite nel loro essere attraversate da ferite e traumi ricorrenti». Eppure, in queste pagine che stanno al centro del libro, è la tenerezza a prevalere nel rapporto di un figlio «diventato padre di mio padre», di un padre «diventato figlio di tuo figlio» (X, 1-2). «Adesso ti xe un albero, papà, / un albero grando / sensa nome / dove le seleghete va a ripararse / quando ghe xe vento / e la vita se desmèntega de la vita»: così il prologo in dialetto – la lingua paterna – introduce il tema-chiave della sezione, forse del libro stesso: in quel desmentegar non è solo il destino del padre, e di tanti come lui rinchiusi nel Centro Alzheimer del titolo, ma è anche il ritmo della natura stessa. In quel padre che diviene albero, «uno de quei alberi / che no gà più bisogno de niente», in quella perdita di nome e di parole intellegibili, in quella inconsapevolezza (XII, 7-8) della vita che si abbatte su di lui come sui suoi compagni, è come se si affermasse una legge di natura di cui l’uomo è solo una patologica – provvisoria – eccezione. Allora – ed è la parte più sorprendente, irragionevolmente felice del libro – sono proprio le immagini metamorfiche (il «microscopico insetto» che sta nel pugno del figlio di VIII, 8; la «voce di nebbia» di X, 15; i pensieri «che scampa come bisse sora l’erba» del componimento conclusivo) a scandire in successione il destino del padre, sottraendolo al dolore dei figli, allo strazio di chi non può che assistere sgomento a quella fine, e intonare, sul motivo tradizionale dell’ubi sunt, un catalogo di «impagabili / comparse» (V). Così che proprio all’apparizione, improvvisa ed epifanica – quasi un talismano – di una volpe, nella seconda poesia della sequenza, è dato il compito di annunciare una fine temuta, certo liberatoria.
La terza ed ultima sezione del libro, I panneggi della pietà, integralmente in prosa, ripropone – con minime varianti – pagine già apparse in Ritorno a Sovana, corredate da alcuni inediti. Ma è significativo che la poesia che là iniziava, qui sia posta in conclusione, quasi un sigillo a tutte le poesie che abbiamo letto: la felicità è degli «ebeti», di coloro che rinunciano ai «mulinelli» del pensiero per coincidere fino allo spasimo con ciò che accade, fino a «penetrare nella cordigliera del sonno, senza più voce, finalmente muto». A questo lasciare che le cose siano, che tutto ritorni natura, fiato inconsapevole del mondo, corrisponde nondimeno, nelle otto prose che precedono, un viaggio della memoria fino alle origini della vita stessa, come in quel fantasticare intorno alla foto che ritrae i genitori – la mamma già incinta – il giorno delle nozze in San Francesco della Vigna, a Venezia: anche lui – lo scrivente di molti anni dopo, quando tutto pare essersi consumato, o sul punto di consumarsi – era già lì, ma nella veste, invidiabile, di coloro «che non sanno» (come Franchino il portiere – «statua svettante nella canicola di un giorno imprecisato di un’estate del ’67 o del ’68» – di una prosa successiva), prima che tutto accadesse, prima di ogni partita e di ogni cielo, prima di ogni memoria.
Giancarlo Pontiggia
Gescal
Sogno ancora di essere l’adolescente
che gioca interminabili partite
sulla piattaforma in cemento della Gescal,
con il vento che affila volto e fianchi,
la palla servita
al compagno più imbranato
che spreca l’occasione imprecando
nel sole allucinato delle due e quaranta.
Addio a Mirco
Eccolo mio cugino
che mi cammina a fianco
nella luce ubriaca del primo pomeriggio
e, chissà perché, mi dice: «Lo sai
che quand’eri più giovane
assomigliavi a Pirlo?»
Ecco, l’avevo rimosso
questo particolare,
adesso che non posso
più incontrarti lungo il traffico
patibolare di via Colombo
e accompagnarti in macchina
fino alla stazione
perché, a quasi quarant’anni, non hai la patente
e non sai guidare.
Ma chi sa guidare
la vita che pregiudica la vita,
se perfino la tua compagna
ti punta alla gola, nel sonno,
il coltello più affilato?
Ora che non ti posso
più incontrare vorrei dirti
che non mi eri cugino
che non mi eri fratello.
Assumi, come Pirlo,
le mie sembianze di un tempo.
Rincorriamo nel vento,
felici della nostra infelicità,
la palla immaginaria
che non hai voluto, saputo stoppare.
Xolótl
Per anni mi sono chiesto perché
appaia un cane nero
in quell’immagine che tanto stride
con i ritratti a mezzobusto
di quelli che ci sono e non ci sono.
Forse Xolótl, il dio-cane, ti accompagna,
avido di lusinghe e di carezze,
lungo il sentiero arioso che conduce
dove – ma non per noi –
farnetica la luce.
Per gli egizi Anubi
per i cinesi T’ien-k’uan
Cerbero per i greci
per i germani Garm:
è risaputo che gli antichi associassero
alla morte il simbolo del cane.
Ma tua madre ha scelto quella foto
solo perché ti immagina sereno
in un giardino anonimo
mentre accarezzi il cane
che per sempre custodirà il tuo sonno.
Down
Sbucano all’improvviso
da un vicolo assolato,
da un androne di pizzeria,
dalla ressa di un bagnasciuga,
spaesati, a gruppetti di quattro
di sei di otto,
tenendosi per mano,
le lunepiene dei volti
glabri, rincagnati,
da cui spuntano occhietti
sottili come spilli
sempre rivolti all’accompagnatrice.
Rispondono a monosillabi
– sì no, no sì –
l’esistenza ridotta
a una semplice opzione.
Si inebriano per un gelato,
piangono per un nonnulla.
In realtà sono loro che dovrebbero
avere di noi compassione.
Sfoggiano zainetti multicolori,
berretti col frontalino
dove campeggia la scritta
di qualche università dell’Ohio.
Via Circonvallazione
Qui, dove sorgeva l’ospedale
Umberto I, passeggio ogni mattina.
Al posto dei padiglioni il vuoto
recintato di un cantiere
cadenzato da sbuffi di erbamatta.
Nelle zone limitrofe
sono ancora in attività i negozi
che hanno contrassegnato la mia infanzia:
edicole farmacie
sanitari pasticcerie.
Al loro interno non si vede nessuno.
Molte imprese di onoranze
funebri dai nomi
tristemente famosi: Rallo Sartori
Fratelli Ferraresso Amadori.
Dietro l’area dell’ospedale,
lambito da un canale,
c’è ancora il vecchio
parcheggio, frequentato da bengalesi e pachistani.
Nell’erba si vedono detriti, una siringa.
Il cielo ha un colore schiacciato, di decomposta aringa.