
a cura di Francesco Dalessandro
Breve prosa metrica
Non ho mai creduto alla favola del poeta invasato dal dio; /
piuttosto a un interiore rovello imbrigliato dalla necessità della forma. /
E per aver perso l’esercizio (il vizio, se si vuole; magari l’istinto) /
dei versi – la fede, per così dire, nella loro necessità –, /
non potevo non stupirmi del dono ricevuto la mattina di Natale. /
M’ero svegliato presto, con la vaga sensazione che dovesse accadermi /
qualcosa; o forse con l’inquietudine che tutto, mio malgrado, fosse /
già accaduto durante il sonno. Passato l’attimo in cui la coscienza, /
non ancora vigile, fluttua come una bolla di sapone, fatica a rientrare /
nel suo alveo di certezze e il pensiero mette a fuoco i dettagli /
(i bersagli) quotidiani; passato, dico, lo spaesamento del risveglio, /
sentii come un ronzio nelle orecchie, un suono interiore crescente /
a poco a poco e che, dapprima distante, via via avvicinandosi, /
prendeva corpo e, facendosi chiaro, diventava comprensibile. /
La mente, allora, dal suono, riconobbe trattarsi di una breve /
sequenza di parole, e il ritmo, scandito da cesure decise e precise, /
rivelò quel che erano: versi. Perché io, che non avevo mai creduto /
al dono del canto; io, poeta ridotto al silenzio, ricevevo un tale dono? /
Stentavo a crederlo. Tuttavia, temendo di perderli, quei versi, /
nelle pieghe delle riflessioni, m’affrettai ad alzarmi e a trascriverli, /
rinviando a dopo ogni analisi:/
… eri – e non so
quale strano destino
così ti fece – forte
più di ferro temprato
ma fragile: un cristallo
più di te mi resiste
Turbato, continuai a pensare ad essi, alla loro misteriosa apparizione /
e il possibile messaggio che ciò racchiudeva: era questo a turbarmi. /
Da tempo, ormai, il mio orecchio era chiuso all’ascolto, il mio sguardo /
annebbiato: come credere d’essere stato prescelto? E a quale oscura /
elezione? Doveva esserci un’altra spiegazione, molto meno esoterica, /
molto più banale. Da tanto, come ho detto, avevo rinunciato /
all’abitudine e, semmai l’avessi avuta, all’abilità di fare versi. /
Uno dei motivi che m’avevano convinto a rinunciare del tutto /
all’inutile pratica di un tale esercizio era stata l’estrema fatica /
che ormai mi costava. Perdendo, col tempo, la pazienza necessaria /
a quell’opera di lima e di pulizia sempre compagna della mia scrittura, /
meno capace ogni giorno di concentrazione, avevo deciso infine /
di non scrivere più. All’inizio, è vero, fu più penoso che continuare, /
poiché restava la smania; ma una smania impotente, un desiderio /
acuito dalla privazione, senza possibilità di compimento. /
È come quando desideri una donna che non ti vuole, mi dicevo. /
È come smettere di fumare, mi dicevo, questione di volontà. /
Così, quel mattino, dopo aver trascritto i versi, neanche belli, /
forse, ma certo col sapore di quelli di una volta; dopo aver a lungo /
pensato al loro senso, al loro chiaro significato; dopo essermi a lungo /
chiesto da dove fossero mai scaturiti, da quale dimenticato recesso /
della mia coscienza; dopo tanto ho capito. Ho capito che non erano /
né nuovi, né venuti dal profondo della coscienza; tanto meno donati /
da un dio, ma solo e più banalmente da qualche piega della memoria. /
E difatti, cercando e traendo dal fondo dimenticato di un cassetto /
un fascio di vecchie carte, li ho ritrovati. Di quand’erano? /
Degli anni Settanta? Come scritti? Perché? Ero giovane, allora, /
e quei versi hanno il sapore di una stupita agnizione d’amore, /
quella che solo un giovane innamorato può provare; hanno il sapore /
della gioventù e del suo declino. Che il loro inatteso rifiorire/
dal fondo di una memoria ormai stanca sia presagio di una fine /
imminente? Sì, un presagio che non è più solo tale, ma che ora /
è una severa scadenza. Però non me ne cruccio; ne sono anzi lieto, /
e l’attendo tranquillo e sereno; perfino augurandomi un piccolo sconto.
(L’Aquila, 21 marzo 1987)
***
Fiamma d’amore
(nel silenzio dei versi)
O, learn to read what silent love hath writ;
To hear with eyes belongs to love’s fine wit.
Oh, leggi quel che amore silenzioso scrisse:
con gli occhi ascolta chi l’amore intende.
Shakespeare’s Sonnet XXIII
Nebulosa
Distante nebulosa: un’immagine
che perdura. Ma i tuoi occhi
come un sereno crepuscolo
si posano sul mondo: le luci
tremano, il vento gioca
con le tende, io combatto
col vuoto di una stenta
metafora, per dirtelo.
(1975)
Braci
1.
Nell’intrigo d’un sogno
che fiorisce e si sfa come artificio
tra due batter di ciglia, amore mio,
nell’intrigo d’un sogno,
con che altera andatura
tu incedi, amore mio!
2.
Piove a scrosci ostinati.
Il sonno preme i vivi,
li acquieta. A noi la notte
prodiga i suoi beni.
La mano preme la tua bruna gemma
e tu, guado fra i sensi,
affini un tempo
avido di carezze…
3.
Un fosco desiderio in una fosca
notte – sua voce, amore,
il brusio delle nostre carezze –
un fosco desiderio ci affina:
circoscrive il riarso
tremito delle mani i levigati
percorsi; brucia di un
cupo incendio il tuo corpo:
le tenebre accendendosi,
piacere che divampa
nella furia (tua, mia) d’un rauco sì –
fino a placata morte.
4.
Chi, amore, sa l’eterno
mistero che il tuo corpo
nudo sul mio rinnova?
5.
Ti guardo e mi guardo nella fulva
luce del pomeriggio farmi posto
nel tuo buio, t’osservo
reagire alla violenza
contro dischiuse labbra
con violenza dolcissima, mi studio
nel cauto movimento
mentre ti prendo e ti dai,
t’ascolto nell’attimo inquieto
d’un rauco deliquio,
ti respiro in un fiato nel tuo grido
soffocato, nel mio…
6.
Circospetta – oh catturata! –
s’effonde la luce di lente
combustioni, di rapidi abbagli.
(1976 – 1981)
Graffi
1.
a distanza di un secolo ricordo
la sera e l’ora il bar dove seduti
bevendo un cioccolato
caldo un poco guardandoti ed un poco
il tuo sguardo fuggendo
t’innamorai di me la prima volta
2.
nacque affamato e fragile
l’amore in gioventù
fu visto frequentare birrerie
bar ed altri locali fu felice
e spensierato poi
crebbe e imparò il buon senso
la prudenza – si perse
3.
vorrei… ma in altro amore
(è vero?) ormai sei presa
(sei persa?)
4.
altre (perfette?) braccia
ti stringono però
non ti tengono
(1982-1985)
Venere
Non hanno più l’esatto
suono le mie (le tue) parole.
E Venere da qui (mentre l’amore
di undici anni ad altre
mani affido) ha una luce
estranea. Equidistante,
io non so più in che cosa, in chi fidare.
(1986)
Lettera
«… ma ricorda che il tempo
per noi fu quell’abuso
di notti senza pace il disperato
tentativo di perderci di amarci».
Camillo Fonte, nato a L’Aquila (frazione di Collebrincioni) il 1° giugno 1951, poeta riconosciuto solo da pochissimi amici e quasi del tutto inedito, mise fine alla sua vita il 21 giugno 1987, solstizio d’estate, sparandosi un colpo al cuore. Della sua vicenda umana si sa che insegnava italiano in un istituto tecnico per ragionieri (intervistato da un cronista locale, il preside così si espresse sul suicida: «Aveva una soavità del parlare e dei costumi che attraeva chiunque») e poco altro: di un amore non proprio felice per una donna che, pur preferendogli un altro, mantenne con lui, fino alla fine, una tormentata relazione (a testimonianza della quale resta quella dozzina di brevi poesie d’amore); della depressione che ne derivò; della decisione di non scrivere più, presto seguita dal suicidio. Notizie scarne dovute al fratello maggiore, Severino, il quale, sulla lapide, sotto al nome, fece scrivere, alla maniera antica: Vixit annos XXXVI, dies XX. Obiit die XXI Junii MCMLXXXVII.
L’iniziale breve prosa in forma di poesia può essere considerata come una specie di testamento poetico del suo autore, ovvero una lettera sul perché della sua rinuncia alla poesia (e, a breve, della vita). Il titolo è un ovvio richiamo alle Epistole metriche del Petrarca.
Due parole in più meritano le poesie che la seguono. Dattiloscritte l’una dietro l’altra su tre fogli, precedute dall’esergo scespiriano, erano allegate con un fermaglio ad una lettera – scritta a mano, senza correzioni, senza sbavature, con grafia piccola, chiara, precisa – datata: Domenica, 21 giugno 1987, Corpus Domini. Si trattava di una copia in carta carbone, chiusa dentro una cartellina azzurra, trovata il giorno successivo insieme alla copia de L’isola (il poemetto ispirato all’Odissea al quale Fonte lavorò per alcuni lustri) in un cassetto della scrivania dal fratello Severino. Camillo era disteso senza più vita sulla poltrona di fianco allo scrittoio. “Sembrava dormire” disse il fratello alla polizia.
Per discrezione (non potendo ottenere il permesso di farlo dalla persona alla quale era indirizzata, che non conosco), evito di trascrivere la lettera intera, citando solo le poche righe finali che riguardano le poesie e che dicono così: I fogli che troverai sotto questa lettera vogliono essere il mio ultimo regalo: contengono quelle poche poesie che negli anni ho scritto per te e che (se altre ne ricordi che qui non trovi) sono sopravvissute ai periodici fuochi di san Giovanni. Non credere ch’io creda che queste siano degne di sopravvivermi, e che perciò te le lasci. Che servano appena come traccia del mio passaggio nella tua vita.
Dodici poesie. Solo dodici per dodici anni: tanto durò la relazione con la destinataria di questo piccolo canzoniere. Una poesia per ogni anno. Diversi sono i registri stilistici: lirico in Nebulosa e nelle poesie di Braci, epigrammatico ed ironico in Graffi, tra il lirico e il confessionale in Venere e nella Lettera.Due parole sul titolo. A macchina, all’inizio del primo foglio, era scritto Fiamma d’amore. Il titolo riprendeva quello italiano di The skin game, un film del 1931 di Alfred Hitchcock (si sa della predilezione di Fonte per il geniale regista anglo-americano). Certo non un brutto titolo, ma forse l’avrà sentito troppo convenzionale; o forse si sarà ricordato del verso di Juan de la Cruz: oh llama de amor viva, perché vicino ad esso tracciò, a matita, un punto interrogativo e, sotto, tra parentesi, scrisse: Nel silenzio dei versi (che riprende l’esergo da Shakespeare). Per questo, ho deciso di lasciarli entrambi.