Recensione di Giovanni Agnoloni
Diego Caiazzo, Il sistema solare, Diogene Edizioni, 2020 (prefazione di Valentina Di Cesare)
Una volta, quando ero al primo anno di università, feci un sogno. Ero nella cucina di casa mia, che ha un pavimento a mattonelle quadrate bianche e nere, come una scacchiera, e stavo per dare un esame davanti a una commissione universitaria. La materia era quanto mai singolare: “teologia privata”. Ovviamente l’assonanza era con il diritto privato che stavo studiando, ma non ho mai capito che c’entrasse la teologia – e soprattutto che senso potesse mai avere il suo essere “privata”.
Leggendo Il sistema solare di Diego Caiazzo forse sono arrivato a intuirlo. Sì, perché il secondo poemetto poetico-narrativo dell’autore pomiglianese (dopo La via lattea, Lupi Editore, 2017), è capace di prendere per mano il lettore e di condurlo in un percorso che collega le profondità cosmiche alla semplicità dei gesti e dei pensieri di ogni giorno, nella loro normalità che si estende su uno spettro capace di andare dall’intimità di pensieri su amore, poesia, guerra, sport (a proposito, Caiazzo è maestro di scacchi, e adorerebbe senz’altro la mia cucina) e sullo scorrere del tempo, ai temi del dolore, della perdita e della morte. Ecco i primi versi, che dettano fin da subito il tempo musicale e concettuale di tutta l’opera:
Scrutando il cielo dei ricordi
si aggiornano le mappe celesti
la costellazione del dolore
stupenda e irta di stelle
la nebulosa dell’amore
in cui è facile perdersi
e i gas le polveri e il nulla
della vita quotidiana
delle indifferenze
e dei rapporti fraterni
e i buchi neri in cui
a volte si precipita
e i pianeti e i satelliti
gli asteroidi gli anelli
il sistema solare delle persone
che abbiamo incontrato
la cui vita si è incrociata
con la nostra
come in un immenso cruciverba
insolubile.
Tutto questo è intensamente mistico: di una mistica della realtà del qui, incessantemente specchiata in ciò che è incommensurabilmente lontano. Caiazzo coglie in poesia la coesistenza frattale di questa presenza spirituale calata tanto nelle cose remote quanto in quelle prossime: ovvero, tutto ciò che conosciamo (e anche quello che non conosciamo) è in ogni singolo punto dell’universo, per cui, se è vero che per la fisica quantistica il tempo, in definitiva, non esiste (se non nella nostra percezione altamente approssimativa dell’entropia cosmica), è sensato ipotizzare che ciò che è stato prima, lontano, continui ancora a irradiare un calore, un’energia residua che è in sé azione, dramma, poiesis.
Se il mio cervello è l’universo
allora un grosso buco nero
vi si è aperto d’improvviso
e come una voragine
mi inghiotte le cellule.
Lente le immagino mentre
trapassano chissà dove,
come se fossero
le mie avanguardie;
ad ognuna di esse consegno
un pezzetto di memoria,
così che un giorno,
quando le raggiungerò,
io stesso possa riconoscermi.
È da questa chimica segreta che scaturiscono i versi del poeta. Versi semplici ma intrinsecamente filosofici, concreti ma fortemente spirituali. Forse, allora, mi dico che è questa la sua cifra: un’intuizione aleggiante sul crocevia tra l’essere perfetto e immutabile parmenideo, il panta rhei eracliteo e l’epicurea fruizione di un presente sia pur carico di risonanze di rimpianto. Ma questo sentimento, che venga proiettato dal ricordo del padre ufficiale di Marina durante la seconda guerra mondiale o dagli amori sfumati eppure rimasti lì, davanti e dentro di lui, come daimones capaci di ossessionarlo e spremergli fuori dal profondo liriche incisive, viene sempre ricondotto a chiara – ancorché disincantata – coscienza del luogo e del momento in cui la vita ci ha posti.
Vedo gli occhiali di mio padre
e quelli di mia madre
riposare insieme
nello stesso cassetto;
per una innominabile inerzia
so che si guardano, si cercano,
incuranti della morte;
pare siano rimasti qui
ad assicurarmi sui loro sguardi,
il loro modo di rendere
l’amore immortale.