Recensione di Francesco Improta
Haroldo Conti, Mascaró, Exòrma Edizioni, 2020
Ritorna in libreria, dopo una lunga assenza, uno dei capolavori della letteratura latino-americana, Mascaró di Haroldo Conti (Exòrma edizioni, 16,50 €), nella splendida traduzione di Marino Magliani che è riuscito a rendere perfettamente la scrittura colorita, festosa e scoppiettante del grande scrittore argentino.
Il romanzo si avvale dell’affettuosa e interessante prefazione di Gabriel García Márquez che non solo ci racconta in tutti i suoi drammatici dettagli la cattura dello scrittore inviso al regime militare di Videla e finito successivamente tra i desaparesido ma ci fornisce anche alcuni particolari illuminanti sulla personalità di H. Conti: la fedeltà all’ideale rivoluzionario di Fidel Castro e Che Guevara, il suo amore per la vita, l’attaccamento alla famiglia e al suo mestiere di scrittore e l’insopprimibile desiderio di libertà.
In una lettera indirizzata proprio a Marquez che lo aveva pregato di andarsene dall’Argentina per evitare problemi con la giunta militare, Conti aveva scritto: “Uno deve scegliere – e aveva aggiunto – Resterò finché sarà possibile […] perché oltre a scrivere, e neanche tanto bene, non so fare altro”. Non a caso davanti alla sua scrivania aveva appeso un cartello con queste parole: “Questo è il mio posto di combattimento e da qui non me ne vado”. Alla prefazione fa seguito un breve prologo dello stesso autore che rivela la genesi e la lunga gestazione del libro e accenna al valore decisamente simbolico del suo eroe eponimo, Mascaró, che, pur non avendo molto spazio all’interno della vicenda, vive in un alone mitico, simbolo di libertà e di lotta contro ogni forma di oppressione e di dittatura.
Strutturalmente il romanzo si divide in due parti: il circo e la guerriglia, più onirica e ironica (splendido anagramma) la prima, più realistica e drammatica la seconda. E per gli amanti delle catalogazioni possiamo affermare che si tratta di un romanzo circense e picaresco in linea con la migliore tradizione del genere.
La vicenda ha inizio in una taverna di Arenales, dove alcuni avventori aspettano l’arrivo di una nave scalcinata, Mañana, dal nome decisamente emblematico (Domani) che avrebbe dovuto portarli via da lì verso un porto sconosciuto e nuovi orizzonti. Fin dall’inizio prende piede e si afferma quel senso di libertà, di espansione, di avventura che è che è nelle corde di Haroldo Conti e alla base del romanzo.
La vita – dice Conti – è una nave più o meno bella. Perché tenerla all’ancora? Lasciamola andare. Perché lo dico? Perché il meglio della vita lo buttiamo via, cercando sicurezze. Porti, ripari e ancoraggi sicuri.
L’arrivo della Mañana mi ha richiamato alla mente il passaggio del Rex nel film Amarcord di Federico Fellini, né ciò deve meravigliarci perché come vedremo i personaggi di Conti così bizzarri, stralunati e originali possono essere considerati – e più di un critico lo ha detto – figure discese dal mondo e dalla fantasia del regista riminese penso a Carpoforo, lottatore dalla forza smisurata che ricorda l’indimenticabile Zampanò de La Strada, al clown Perinola, di dimensioni ridotte, trattandosi di un nano, e all’opposto a Sonia, la danzatrice orientale dalle forme opulente, addirittura debordanti, che ci riporta alla Saraghina di 8 e mezzo e alla tabaccaia di Amarcord ma che a dispetto della sua mole appariva quasi immateriale, opulenta forma di vita eterna, possente incarnazione dell’amore, invitta, dolcissima padrona di ogni uomo.
Tornando, però, alle due navi va detto che mentre il Rex, apparso all’improvviso dalla nebbia, lascia tutti gli astanti stupefatti con le bocche spalancate e gli occhi trasognati qui l’arrivo del Mañana è accolto da grida di giubilo e battiti di mani; è una festa che si protrae all’interno della taverna fino all’alba del giorno dopo, quando il Principe, Oreste e il cavaliere nero, Mascaró, s’imbarcano per un viaggio senza una meta apparente. La vita è tutta una traversata e si è in viaggio fin dalla nascita.
Giunti a Palmares, Mascaró che era atteso da altri due cavalieri si allontana con loro a cavallo e il Principe Patagon, Oreste, Nuño decidono di mettere su un circo itinerante, raccogliendo altre persone che condividano questo sogno di vivere on the road perché la strada non è solo un luogo di transito ma una forma di vita. Ben presto si forma un piccolo drappello di circensi a cui si aggiungono una vedova, un cane e un leone, vecchio, sdentato e spelacchiato, che comunque fa ancora la sua figura grazie al suo potente e minaccioso ruggito. Allo stesso modo tutti i componenti del gruppo, con in testa il Principe, maestro di retorica e fine dicitore (non a caso alterna a lezioni di vita declamazioni di versi più o meno famosi), hanno una loro dignità e a dispetto degli abiti dimessi e dei pochi mezzi di cui dispongono riescono a portare in paesi poveri e semiabbandonati un po’ di allegria e a suscitare nel pubblico un sorriso sincero e un autentico desiderio di libertà. Sono semplici saltimbanchi, giocolieri, guitti, clown e danzatrici eppure destano in chi detiene il potere sospetto e diffidenza perché il diverso, l’irregolare, il trasgressivo e perfino il sognatore (numerosi sono gli slittamenti nella dimensione onirica) costituiscono una minaccia per il sistema in quanto non accettano le regole e vivono fuori dal coro e lontano dagli schemi, inseguendo un loro ideale di libertà e di bellezza, quella bellezza che è insita nell’arte e nel gesto unico e irripetibile. L’arte – dice il Principe – è una cospirazione per natura. Non lo sai? È la sua principale attrattiva, la sua più alta missione. Va sempre avanti, è l’alba dell’umanità. Non meraviglia, quindi, che la compagnia a un certo punto si sciolga e che qualcuno dei suoi componenti venga catturato e torturato dalle forze dell’ordine, quasi a prefigurare il destino che toccherà nella realtà all’autore.
Lo stile di Conti, reso mirabilmente da Marino Magliani, è rapido, vivace, scattante, talvolta sembra un colpo di fucile: le parole escono dalla sua penna e non hanno il tempo di distendersi sulla pagina perché scoppiano subito lasciando negli occhi e nelle orecchie fuoco e polvere e nella mente un’indicibile meraviglia.
Oreste si arrampica sul tetto del carrozzone e comincia a soffiare nella tromba. Ne esce un fiotto di sabbia. Il suono rotola come un mucchio di sassi. Ma deve essere arrivato fino in paese perché si sente uno sparo e poi una campana. Questo scrolla a tutti la sonnolenza e perfino la sabbia.
Oppure durante il viaggio sulla nave:
Quando tutto tace si sente il colpo della prua che fende l’acqua senza sosta e, pur se è ancora lontana, c’è il presentimento della notte, quel maratoneta dai piedi felpati che prima o poi li raggiungerà.
Il libro di Haroldo Conti, pur nell’apparente stravaganza, è di una profonda e lucida pensosità; sembra portarci lontano sui sentieri del sogno e delle illusioni ma ci tiene ancorati alla terra e ci invita a prendere coscienza di ciò che siamo e di ciò di cui siamo continuamente defraudati.
Buona lettura.