
Passare in treno i boschi spogli di robinie,
i campi irti d’erba e stoppie
dalla notte assiderate
è come
attraversare un sogno
– e basta un magro ciuffo di betulle
a fingermi la taiga intera, la
Transiberiana
prima che Milano si materializzi
e il giorno
*
I trentenni e passa
che s’aggirano intorno al Duomo
con berretti da sci
a pompon
multicolore.
La più rigida, tronfia
matrona di provincia
che in treno legge
il romanzo erotico del momento.
L’evanescente ricciutissimo – un soave Branduardi senza violino –
che si capisce poi essere il prete venuto
per la benedizione di Natale,
ma dal gesto rituale imbarazzato
dichiara il luogo in sé
già più che santo
Sparigliati tutti i codici,
quali che fossero:
e io qui che ancora m’ostino
a scrivere in versi,
a contare sillabe e accenti,
uno a uno…
*
Dopo giorni di nebbie intorno ai boschi
alzando gli occhi in certe vie
d’alti palazzi color crema
lassù sopra i passanti vedi
un fiume azzurro scorrere
solcato da spume candide di nubi,
e antenne nere,
alberi di nave
nel cielo
d’oro
di dicembre
*
a V., me stessa e altri
È eguale dunque
la storia di tutti i poeti –
stessa ferita d’origine (e orgoglio),
stessa ferocia implacata, poi,
in ricaduta
lungo gl’infiniti giorni d’una vita
– e questo stesso unico ciclamino bianco
che palpita cieco innocente
nel sole basso
di dicembre
*
Tra i bagliori e la foschia
del sole morente nell’anno
dicembre è un turgido frutto di ghiaccio
cristallo azzurro
arde
coi brividi vermigli – il traslucido mistero –
d’una grande
melagrana
spaccata
*
(dicembre: le micropolveri in fumo denso)
Che cosa leviamo al cielo
da questa nostra bassura umana
pianura padana
dolcissima terra pedemontana
gas e veleni in luogo d’incenso,
e un frastuono in luogo di canto:
al mare ai pesci le microplastiche,
alla notte e all’altissimo
festoni di luminarie spastiche
*
Ma chi l’avrebbe immaginato mai
che l’anno dovesse, guarda, poi annegare
in tanta grigia pioggia sulle strade,
fra tutte queste
luci blu
da lunapark globale
– ché a Natale ci vuole il fuoco
e una candela, una –
non quest’intermittenza isterica frenetica
di obesi babbinatale
sulla sedia elettrica
*
A ogni curva della strada
l’enorme luna invernale,
ventre gravido,
sulla terra pesa, tra i neri boschi
A ogni notte perde un’unghia di luce
– ignorandosi, col cielo si sfalda
A ogni sguardo è ombra, assenza
*
La luce della neve
vegliando la notte intera
dai riquadri
alle finestre
La notte è bianca
d’ossa uova e grasso,
pietre pelliccia e piume di cigno,
d’anitra,
i cari morti
e i vivi
Inquieta, infinita attesa d’alba, o sonno –
ma è alba, barlume,
l’intera notte:
pareti di roccia,
neve, luna
non dormono: emanano luce
Vegliando la notte intera
– cane accanto al fuoco,
fedele a fianco a un altare –
l’anima è cosa sottile
come i vetri
alle finestre
***
Giovanna Menegùs, testi tratti da L’occhio fotografico (Macchione Editore, Varese 2018, postfazione di Antonio Fiori) e un inedito
Immagine: Kateryna Ivonina, A Pomegranate
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