
di Andrea Cortellessa
«Il genere umano non può sopportare troppa realtà». Non lo ha detto qualche oscuro sofista della derealizzazione postmoderna. Lo ha detto, e più d’una volta, un grande della modernità più «eroica», quella più esposta al vento della storia, Thomas Eliot (si veda Burnt Norton, primo dei Quattro quartetti). Ciò malgrado – e anzi proprio per questo, data la coazione al citazionismo di noi postmoderni – sembrano queste le parole perfette per dar corpo all’evasività superstiziosa, all’esorcismo terrorizzato che ci ha iscritto d’ufficio, come scrive Antonio Scurati a pagina 140, a un apprendistato all’irrealtà. L’oroscopo funesto di quel suo libro intelligente, La letteratura dell’inesperienza, non era troppo diverso da quello formulato da Walter Benjamin nel celebre saggio sul Narratore di Angelus Novus. Se il racconto per antonomasia, in tutta la storia umana, era quello del guerriero che una volta tornato cantava le gesta e le ambagi, il peregrinare e la nostalgia di casa, si accorgeva Benjamin che ora «la gente tornava dal fronte ammutolita, non più ricca, ma più povera di esperienza comunicabile». Solo che l’ora di Benjamin era il 1936; e la guerra restata muta, sigillata in gola a quegli uomini tornati cogli occhi sbarrati, era la Prima guerra mondiale. La grande narrativa della modernità è stata il tentativo strenuo, eroico, di combattere quell’ammutolimento: di premere sulle mascelle, sulla glottide. Per forzare quel blocco. Cosa sono stati Musil e Kafka, Gadda e Céline, se non lo sforzo di alzare la voce (in tutti i sensi) per risvegliarsi e risvegliarci – come diceva un altro di loro, Joyce – dall’incubo della storia? La forza di quella narrativa si scatenava di fronte a interdetti tragici. Più si alzava il livello dello scontro, più quegli scrittori innalzavano se stessi. A fronte di quei veti, i nostri sono barzellette. Quel silenzio era tragico: spezzarlo faceva sanguinare lingua e orecchie. Il nostro è annoiato: interromperlo produce solo rumore di fondo. E allora l’inesperienza di cui parla Scurati è molto simile, ma è anche molto diversa, da quella diagnosticata da Benjamin.
Le assomiglia, certo: come assomiglia, a un padre guerriero, il fi glio che (per sua fortuna) non ha dovuto mai sparare un colpo. È vero, siamo una generazione di traumatizzati senza evento traumatico: l’unica esperienza che conosciamo a menadito, l’unico evento che ci ha penetrati in modo capillare, che sappiamo riconoscere – e, ammettiamolo, apprezzare – in tutte le sue sfumature, è proprio l’inesperienza. Per usare la metafora di Andrea Bajani, il dente che ci duole davvero è quello che ci hanno già tolto: l’arto fantasma. È per questo che sempre più di frequente, nei decenni seguiti a quel versante immenso e crudele, gli scrittori si sono trasformati in reporter. Apro Il poeta postumo di Franco Cordelli appena riedito, prima pagina: «Il reportage rappresenta l’irruzione del dogmatismo nel processo di organizzazione della realtà e del lessico della realtà». Pare oggi, e invece sono passati esattamente trent’anni: già allora a discutere di «dogmatica dell’iperrealismo ». Se «qui» non succede più niente, allo scrittore un mandato sociale resta, in effetti: quello di trasformarsi in bracconiere di atrocità, collezionista di disagi, sommelier di efferatezze.
Proprio come dice Daniele Giglioli: lo scrittore come qualcuno che va dove noi non andiamo, che ci va al posto nostro. In questo senso non cambia (non cambia qualitativamente) se va, questo scrittore, sulle montagne dell’Afghanistan durante l’invasione sovietica, tra i camorristi che gestiscono i traffi ci del porto di Napoli, o a seguire Joyce (Michael Joyce) nel tour tennistico ATP. A spartiacque si possono indicare due libri degli anni Sessanta, A sangue freddo di Truman Capote e Guerre politiche di Goffredo Parise (uscito nel ’76 ma in gran parte scritto e pubblicato in precedenza). Ma erano più meno gli stessi anni anche quando uscì quel film, Mondo cane, di Gualtiero Jacopetti: lì dentro, in fondo, c’erano già (al di là del valore specifico di ciascuno di loro) William Vollmann o Michel Houellebecq. Per non parlare di Jonathan Littell. Il punto è che tutto questo, in sé, non è né un bene né un male. Il punto è cosa succede quando quello scrittore torna, e ci proietta l’horror movie del suo safari nel Reale. Ci lascia indifferenti, ci trasforma in voyeur, ci fa invidia? È moralistico? È pornografico? È le due cose insieme? Oppure è davvero conoscitivo? Incide sulla nostra mente, come dice Laura Pugno? Ci scoperchia la testa, ci opera a cranio aperto? Sono risposte che può dare solo il singolo lettore, ogni volta che apre un libro.
È per questo che mi sento di dar ragione soprattutto a Gabriele Pedullà, che una volta avrebbe rischiato di apparire tautologico nel richiamare gli scrittori all’agone con lo stile, a confrontarsi con quell’Altro, quell’oggetto alieno e minaccioso che è vicino, vicinissimo a loro e che, se non stanno attenti, è capace di strozzarli (come capitò a Mallarmé): la loro stessa lingua. Mentre oggi tale richiamo, ai più, appare un vezzo rétro. Dice bene Tommaso Ottonieri: la letteratura sconta un handicap, rispetto ad altre arti. Meno immediata, difficilmente ci metterà di fronte all’astanza del Reale. Provate a dire, di fronte a un Sacco di Burri, che «non è realistico»: è lì. La letteratura quel Reale lo può bensì rappresentare, cioè stare in suo luogo. Simboleggiarlo, allegorizzarlo, emblematizzarlo. La storia della letteratura è la storia dei progressivi allontanamenti e dei repentini avvicinamenti, a quel Tremendo: senza mai toccarlo davvero. Il che non toglie, però, che le foto di alcuni di quei safari effettivamente ci tocchino. Ma se lo fanno, spiace dover ribadire simili ovvietà, è per la loro qualità. Sono assolutamente certo che fra trent’anni, quando ripenserò a Gomorra di Matteo Garrone, non mi indignerò – come non manco di fare ora, insieme a tutti – per le malefatte dei Casalesi, non solidarizzerò con le disgrazie di Saviano. Quello che ricorderò sarà la luce della scena in cui i ragazzi, seminudi nell’acqua, giocano coi mitra. È la scommessa di ogni arte, stavolta senza distinzione: essere presente ora, nell’urgenza e nella rappresentatività dei suoi contenuti.
Ma insieme, e soprattutto, esserci domani, cioè idealmente sempre: nella potenza con cui esprime contenuti che, un giorno, ci lasceranno di per sé indifferenti. Piuttosto che l’11 settembre 2001 – massimo inganno dell’iper-realtà, il suo convincerci di non essere tale – forse un giorno, e più modestamente, vedremo una data epocale, per la letteratura, nel 12 settembre 2008. Se ha dimostrato qualcosa la morte di David Foster Wallace è che, moderni o postmoderni che si sia, scrivere e leggere può lasciarci perfettamente indifferenti o, al contrario, fare un’enorme differenza. Mi sono riletto quel che DFW scrisse di David Lynch, il cui «vero e unico obiettivo», secondo lui, era «entrarti nella testa». DFW era uno che sapeva spiegare le cose, e spiega benissimo come Lynch in effetti ci entri in testa. Naturalmente, così facendo c’è entrato anche lui, DFW. Con le sue euforie e i suoi ripiegamenti, con la malinconia impaurita di chi è sempre in fuga dal silenzio, col bruciore degli occhi ipercinetici quando sono stanchi, la sera. Con la tentazione di chiuderli, una buona volta, e mandare tutto al diavolo. Scrittore postmoderno? Facciamo scrittore, e basta.
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