di
Roberto Plevano

§ Il commento
Lunedì vado finalmente a visitare l’amico che non ci si riesce mai a vedere, quello che ha seguito i passi del padre e si è accomodato, con occasionali mugugni e genuino compiacimento di sé, dietro la scrivania, nella prassi e identità di imprenditore. Mi mostra i capannoni – un quaranta anni fa qui c’erano campi a perdita d’occho e sull’orizzonte si stagliavano soltanto i campanili dei paesi –, la macchine delle linee di produzione, pile di bobine nei magazzini, parla di fatturato, di crescita, di personale soprattutto: snocciola numeri importanti. I suoi capannoni non sono scatole vuote, c’è gente che viene a lavorare ogni mattina, con i turni anche di sera, famiglie intere hanno un reddito. Ma non è tutto oro quello che luccica, non è soltanto virtù salvifica del sudore e del lavoro, questo lo so da me. Senza addentrarsi in considerazioni generali, so che la crescita di fatturato è stato un passo obbligato per minimizzare perdite pesanti di un investimento sbagliato, un errore che gli rode, tanto che ne parla poco, lui che ama parlare; e per buona sorte, questo passo gli è stato possibile.
Con un giorno del suo fatturato ci vivrei comodamente per anni, eppure lui dice: tu non hai problemi, la tua vita tranquilla, qui appena ti muovi ti saltano addosso, è un assedio continuo. Escludo a priori che dietro alcune occhiate di sottecchi che mi lancia ci sia un sentimento – vaghissimo, eh? – di invidia, invidia in senso buono si intende. Dalle mie parti, con redditi come il mio, c’è poco da invidiare, mi punge il sospetto di essere una specie di fallito, uno sfigato… discorso lungo, la sfiga è una categoria dello spirito che tocca il genere umano, come il peccato originale, come il fato eschileo, come le idee platoniche. Come l’IO cartesiano. Ci si rispecchia, nello sfigato, lo si teme.
Non gli dico niente, annuisco con aria seria, come a dire, eh, ti capisco, comprendo il tuo fardello di imprenditore.
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