Richard Wright, 28 luglio 1943 – 15 settembre 2008
I Pink Floyd. Gruppo tra i più discussi, con l’album The Dark Side of the Moon così criticato, da alcuni giudicato il peggiore, eppure che ha venduto quaranta milioni di copie; con le svolte epocali, psichedelica, rock, e il proseguimento, il rifiuto di sciogliersi, la decisione di invecchiare in pubblico, come i Rolling Stones, le riconversioni con The Wall, gli abbandoni degli affezionati, le accuse, l’acquisizione di nuovi fans, e poi i film, i video, e l’impossibilità di decidere se erano diventati commerciali, se avevano dimenticato la loro storia, le loro avventure; me li ricordo, i Pink Floyd, nel 1970, o 1971, in un grande teatro circolare, senza sedie, tutti noi sdraiati sul pavimento ammassati perché turbinava la musica di Ummagumma, un viaggio mentale e nervoso nello spazio, con Richard Wright barbuto che si accaniva sull’organo, girava una strana manovella e il suono iniziava a vorticare nelle casse disposte lungo la circonferenza del teatro, correva in circolo, incrinava l’equilibrio, confondeva la luce; erano un gruppo compatto, anche se Richard Wright era in contrasto ideologico-emozionale con Waters, e fu allontanato per nove anni, pur continuando a esibirsi nei concerti; un gruppo che sperimentava, anche se la sua era una sperimentazione armonica, poco conflittuale coi gusti del pubblico; una sperimentazione che mirava a soddisfare, più che sfidare; che cercava la melodia, più che la distorsione.
Dopo Syd Barret, che contribuì a creare il mito, con la sua pazzia, la sua sofferenza, la sua fragilità, è partito Richard Wright; forse ha seguito la scia delle note in viaggio di Ummagumma, verso l’ignoto. Have a Good Trip, Richard.
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